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Una ripresa che esclude i giovani non può essere strutturale 

2017-09-18 00:00:00.0000000

Siamo ritornati dopo la pausa estiva leggendo indicatori economici tutti balzati all’insù, merito della ripresa interna o del traino della ripresa europea? Stiamo a vedere. Eppure la sensazione della comune opinione pubblica è che la ripresa sia ancora a macchia di leopardo e che potrebbe essere ancora una volta solo congiunturale.

E’ innegabile che il Pil cresca, potrà toccare a fine 2017 il segno del più 1,5% e potrà accelerare, qualora gli effetti dei provvedimenti sull’ammortamento accelerato, sui maggiori fondi Sabatini per gli investimenti e la prospettata decontribuzione sull’occupazione giovanile dispiegheranno tutta la loro capacità di generare investimenti, reddito e occupazione aggiuntivi.

Tuttavia si potrà parlare di vera crescita strutturale del paese, mettendo fine ad una crisi economica e culturale epocale, solo quando lo sviluppo camminerà sulle gambe dei giovani ovvero quando molti disoccupati troveranno lavoro e potranno formarsi una famiglia, cosa che finora non è avvenuta nonostante i segnali positivi.

Più lavoro e ripresa della natalità dovrebbero essere i nuovi obiettivi della politica nel paese, che finora non sono stati sufficientemente posti al centro dell’attenzione.

Il vero campanello di allarme che suona e che sembra non sufficientemente ascoltato è quello del flusso continuo di giovani che emigrano per mancanza di occupazione qualificata nel nostro paese e la continua diminuzione di famiglie con figli.

Importiamo manodopera dequalificata a causa di flussi migratori, flussi difficili da bloccare e che preoccupano gli italiani e rendono insofferenti le nostre genti per i problemi che generano di convivenza con usi e costumi diversi, mentre esportiamo giovani talenti con spreco enorme di risorse, nell’indifferenza generale salvo discuterne fra gli addetti ai lavori o nei talk show per fare audience.

Mentre il problema dei migranti è sempre e comunque all’ordine del giorno, per quello della fuga dei cervelli e delle competenze non vengono studiate soluzioni, né fatte proposte. Né il governo, né i partiti, né le associazioni di categoria, né i sindacati né gli enti locali, né l’opinione pubblica, si preoccupano più di tanto e non sembrano porre come prioritario l’impegno di fermare ed invertire tale tendenza. Casomai si parla delle pensioni fra 30 o 40 anni dei giovani, ridotte di sicuro per mancanza di lavoro o lavoro precario che generano contributi insufficienti.

Si discute quindi più di pensioni e di difesa dell’esistente occupazione sia nel privato che nel pubblico, invece di trovare soluzioni condivise per trattenere i giovani qualificati in Italia e invogliarli a mettere su famiglia e a fare figli.

Non può essere solo questione di contributi e di salari/stipendi se i giovani emigrano: a spingerli ad abbandonare il paese sembra sia una profonda insicurezza sul destino del proprio paese e sulla mancanza o sull’elevato costo di servizi alla famiglia. Bisognerebbe studiare a fondo il tema, trovare e provare soluzioni alternative in modo da migliorare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, rendere le condizioni di vita nelle città e nei borghi migliori, insomma riproporre i vantaggi ed il piacere di vivere in Italia, paese visitato da milioni di turisti.

Serve un salto culturale che il paese non si sta preparando a intraprendere, preso da priorità e garanzie da fornire a chi rischia di perdere un lavoro per crisi aziendali o a chi va in pensione, mentre ai giovani e alle loro famiglie, esistenti o di prossima e difficile costituzione, vengono riservaste minori attenzioni.

Merito, studio, cultura, demografia, ambiente, salvaguardia del territorio, servizi alla persona, turismo sostenibile, sono temi che molto spesso sono stati trascurati dalla maggior parte degli attori politici, economici e culturali durante la crisi. Al massimo si è puntato sulla possibilità salvifica derivante dalla rivoluzione tecnologica in corso con l’adozione delle nuove tecnologie sui big data e sulla comunicazione. Si discute di industria 4.0, di tutte quelle innovazioni che, se introdotte in modo massiccio, potrebbero portare ad aumento della produttività e dell’occupazione qualificata e ad un miglioramento sul piano economico negli anni. L’informatizzazione spinta potrebbe invece non generare opportunità per tutti i giovani, ma solo per quelli che potranno esserne coinvolti. Per molti altri, meno attratti dalle discipline tecniche e dotati di attitudini umanistiche, potrebbero essere anni di maggiori difficoltà. Infatti l’informatizzazione in corso, che sarà negli anni spinta fino ad arrivare con i robot e l’intelligenza artificiale a livelli attualmente inimmaginabili, non è detto che porti ad un aumento dell’occupazione netta nel paese. Anche i giovani qualificati e laureati in discipline tecniche potrebbero trovare difficoltà, ci sono timori in merito. In mancanza di una programmazione pluriennale sulla formazione delle giovani generazioni e dell’obbligo di una formazione e riconversione continua a tutte le età, come i mercati richiedono, l’informatizzazione in corso potrebbe aggravare la disoccupazione giovanile prima e l’occupazione complessiva poi. L’assurdo paradosso potrebbe essere allora che esporteremo laureati in ingegneria ed importeremo medici ed infermieri dall’India, per una mancata visione strategica attuale e di una programmazione dell’istruzione e formazione professionale adeguata e flessibile secondo i tempi moderni.

Una assunzione di responsabilità collettiva di tale situazione è auspicabile, non solo da parte dei partiti, ma anche da parte di tutti i cittadini, a cominciare dagli imprenditori, dai sindacalisti, dai professori, dai dirigenti e dipendenti pubblici, per rimettere al centro il problema occupazionale dei giovani e la possibilità di farsi una famiglia meno precaria in Italia.

Senza una presa di coscienza su tale tema, la crescita e lo sviluppo del nostro paese non potrà consolidarsi, rimarrà congiunturale, sempre col pericolo dietro l’angolo di un ritorno della crisi e del declino, perché un paese corre e compete solo se può disporre delle gambe della gioventù.