La paura fa novanta – ma ha senso o è controproducente sia per le banche che per le aziende finanziate?
I bilanci delle banche italiane mostrano 91 miliardi di crediti con probabile caratteristica di inadempienza (detti UTP) su 258 miliardi di crediti deteriorati.
Nel mondo del credito si agita un nuovo fantasma, quello degli Utp (Unlikely to pay), acronimo che abbiamo iniziato a conoscere come inadempienze probabili che si aggiungono ai già noti Npl (Non performing loans) che si manifestano in una situazione di legale default assimilabile al fallimento.
Gli Utp si manifestano in una cornice di difficoltà iniziale a far fonte agli impegni con regolarità, mentre l’azienda continua ad operare, pagare gli stipendi e i fornitori. Intanto le banche negano il credito o lo fanno costare troppo.
Gli Npl sono una partita chiusa, una perdita contabile, gli Utp una difficoltà che può essere superata, un ritardo nel rimborso di un finanziamento che spesso è solo momentaneo, contingente.
La filosofia di alcuni manager bancari e le indicazioni delle Authority suggeriscono che anche gli Utp debbano essere ceduti dalle banche imbarcando perdite certe a fonte di crediti probabilmente gestibili. Alcuni istituti di credito come Creval, Cariparma, Unicredit stanno procedendo in tal senso, via il dente via il dolore.
Le norme che impongono l’azzeramento di un credito irregolare entro due anni, inducono le banche a vendere gli Utp a qualsiasi prezzo allo scadere del diciottesimo mese. Innescando un possibile effetto valanga (maggiori perdite sui loro bilanci e difficoltà delle pmi a stare sul mercato).
L’inasprimento delle regole e la maggiore severità nel rispetto dei termini di incasso e pagamento, ha indotto alcune banche a trattare un’azienda in temporanea difficoltà finanziaria come morta anche se ha solo un raffreddore, per timore che il temporeggiare porti ad accusare maggiori perdite future.
Abbiamo appreso dalla stampa che non tutte le banche si sono allineate a tale andazzo. Per esempio il Dr. Giuseppe Castagna, amministratore delegato del gruppo Bpm, quarto in classifica con l’11% degli Utp italiani, ha espresso l’idea che vanno fatte scelte diverse, accompagnando le aziende anche nei momenti di difficoltà. La scelta di tale banca di tenere tali crediti in portafoglio è stata vincente consentendo la loro discesa in 18 mesi da 11, 5 miliardi agli 8,5 dell’ultima semestrale, riportando in bonis molte pmi.
Gestire gli UTP è un lavoro estremamente difficile e complesso che richiede innanzitutto un’analisi industriale specifica delle cause della crisi, un tipo di conoscenza di cui molte banche non sempre dispongono e che soprattutto nei casi delle pmi non è facile ottenere.
Pertanto si sceglie in questi mesi la via finanziaria della cessione a terzi specialisti nel recupero crediti come Cribis, Fire, Dobank, Cerved Credit, Credito Fondiario e Securitization Services, sei operatori che fanno la parte del leone nel gestire tali crediti, guadagnandoci per bene. E se tali operatori specializzati ci guadagnano le banche che non si sono dotate per tempo di una struttura di gestione e recupero ci perdono. Perde tutto il sistema economico finanziario nazionale in quanto pur di far quadrare velocemente i ratio (prestiti inadempienti su prestiti concessi = Utp ratio), di fronte alle verifiche degli analisti e alle pretese degli organismi di controllo, si procede alla cessione onerosa degli Utp.
Come spesso accade la mancanza di programmazione e di competenze generano perdite e aggravi di costi che vanno ben oltre ai dati contabili e pochi riescono a percepire tale situazione, men che meno i nostri governanti poco avvezzi a capire e a gestire la complessità del credito.