Le crisi durano molto più a lungo di quanto si pensi
(come scrisse Rudi Dornbusch, uno degli economisti più lucidi del Novecento)
Le crisi durano molto più a lungo di quanto si pensi, ma poi svoltano e si avvitano in un baleno. Ci vogliono dei mesi, ma poi basta una notte. Così scriveva l’economista Dornbusch ed è la speranza a cui ci aggrappiamo in un senso o nell’altro per leggere e reggere l’attuale periodo di turbolenze finanziarie.
Era il luglio di cinque anni fa quando si avvertirono i primi scricchiolii in alcune banche americane, francesi e tedesche. Da allora stiamo attraversando la più forte recessione dagli anni trenta e non sappiamo quando ne usciremo.
Intanto questa crisi ci ha indicato alcune verità:
1) le crisi finanziarie, soprattutto quelle scatenate dalla bolla speculativa immobiliare, producono, quando la bolla scoppia, recessioni molto lunghe. Il Giappone è solo l’esempio più recente: non si è ancora ripreso dalla bolla immobiliare scoppiata nel 1989;
2) occorre abbandonare l’illusione che per riprendere a crescere basti un po’ di spesa pubblica. Per vent’anni il Giappone le ha provate tutte: porti, metropolitane, alta velocità, col risultato che è cresciuto il debito pubblico, ma la crescita non è arrivata. Quando il debito pubblico sale oltre certi livelli diventa un macigno che rallenta a lungo la ripresa;
3) per risanare il sistema finanziario bisogna separare le banche dalla politica, in entrambe le direzioni: ridurre il potere dei politici sulle banche e l’influenza dei banchieri sul governo. Oggi le banche pubbliche tedesche osteggiano il trasferimento dei poteri di vigilanza alla Bce; le Caixas spagnole finanziano le squadre di calcio di Barcellona e Real Madrid, ma fallirebbero senza la protezione del governo spagnolo, per limitarci all’estero perché parlando dell’Italia potremmo urtare qualche suscettibilità partitica. Intanto negli Usa l’ex presidente della Fed Paul Volcker propone la separazione delle banche commerciali dalle banche di investimento, ma la proposta non prende piede per l’ostilità interessata di Wall Street;
4) la crisi ha evidenziato la fragilità del progetto europeo sull’Euro. Fino a quando c’era sviluppo le fondamenta hanno retto, da quando è scoppiata la crisi la costruzione traballa. Pensare che le formiche del Nord salvino le cicale del Sud socializzando i debiti di quest’ultimi (Italia compresa) è impensabile e non è la soluzione: avrebbe solo l’effetto di dare alle cicale l’opportunità di rimandare le riforme. L’Euro comunque tiene solo con un piano a medio termine di integrazione bancaria, fiscale e politica, senza peraltro contare solo sui tagli e sull’abbattimento del potere reale dei salari, medicina socialmente rifiutata;
5) I compiti a casa dobbiamo continuare a farli, non solo quando lo spread sale. Bisogna abbandonare l’illusione che basti ridurre gli sprechi. Bisogna rivoluzionare il nostro ‘stato sociale’, come fece la Germania dieci anni fa, per evitare che i servizi pubblici siano gratuiti perfino ai ricchi e rendere prioritaria la riduzione delle tasse su chi produce e chi lavora;
6) La giustizia sociale va garantita a tutti, creando pari opportunità. Non demonizzare la ricchezza, ma offrire a tutti la possibilità di acquisire gli strumenti necessari per ottenerla: premiare il merito, punire le rendite di posizione, scardinare i privilegi, colpire duramente l’evasione e sovraintendere alle regole della libera concorrenza.
Avranno i nostri politici, i tecnici economico-finanziari, i banchieri, gli imprenditori, gli italiani tutti la volontà di guardare in faccia alle verità sopra descritte e comportarsi coerentemente per uscire dalla crisi, o ciascuno darà la colpa all’altro, facendo girare un cerino che poi brucierà le speranze soprattutto delle nuove generazioni?